Una guerra commerciale che fa capolino, perdite sui prestiti nelle banche regionali e due mesi
di tranquillità sui titoli dell’IA che improvvisamente sembrano meno certi. Metti tutto insieme
e ottieni la combinazione esplosiva: la più turbolenta settimana dai tempi di aprile per i
mercati azionari.

Non è che un solo fattore abbia fatto scattare l’allarme: ognuno sembrava gestibile da solo. E
infatti, tutti e tre gli indici principali — S&P 500, Dow Jones Industrial Average e
Nasdaq Composite — hanno chiuso la settimana in rialzo (l’S&P è salito dell’1,8%), quindi sì:
guadagni pur con lo stomaco in sospeso.

Ma ecco cosa spaventa davvero: la calma assoluta che regnava da mesi si è interrotta di colpo,
lasciando trader e investitori col kleenex per asciugarsi il sudore freddo.
Un numero su tutti spicca: la Cboe Volatility Index (VIX) — l’indice che misura quanto sono
nervosi gli investitori — è balzato fino a 28,99 venerdì, livello più alto da aprile. addirittura che
possa arrivare a 47,5 o 50. No, non è un tiro al bersaglio: sono selezioni di opzioni “in caso di
panico generalizzato”.

Jordan Rizzuto di GammaRoad lo dice chiaro: «La lista delle preoccupazioni sta aumentando.
In questo ambiente, dobbiamo aspettarci più volatilità». Non è un invito a danza, ma a coprirsi
bene.

I motivi?

  • Le banche regionali — che dovevano stare “in panchina tranquille” — hanno visto
    crollare alcuni titoli e apparire ombre sui loro prestiti.

  • La Cina e i dazi: torna il copione della guerra commerciale che fa sobbalzare i mercati.

  • Le mega-scommesse sull’IA: finché la narrativa era “estraendo oro da bit”, tutto ok. Ma quando iniziano a chiedersi “funzionerà davvero?” la festa può smettere presto.

Non è tutto pessimismo: sì, i colossi bancari hanno registrato utili robusti, e ci sono segnali che
le sacche di rischio siano isolate. Ma il fatto che i mercati stiano cercando rifugio in settori
“difensivi” come utility e beni di consumo (che pagano dividendi e fanno “eh, almeno non
crollo”) la dice lunga. Perché quando anche l’oro e i Treasury diventano protagonisti, vuol dire
che la festa si fa nervosa. Ad esempio, il rendimento del titolo USA a 10 anni si è attestato su
circa 4,006% venerdì, uno dei livelli più bassi dell’anno.

In sintesi: gli indici azionari continuano a fare nuovi record — sì, lo so, sembra
contraddittorio — ma dietro le quinte il nervosismo sta aumentando. E come dice Rizzuto, “non
è che la storia si ripeta esattamente, ma sicuramente fa rima”.

Quando l’energia diventa la nuova “tech mania”
Dimentica per un attimo le valutazioni galattiche di NVIDIA e soci: oggi il vero eccesso di
mercato non sta nei semiconduttori, ma nell’uranio — almeno quello sulla carta. Perché mentre
i big tech almeno qualche miliardo di utile lo macinano, nel settore energetico stanno fioccando
capitalizzazioni da Silicon Valley per aziende che, al confronto, fanno sembrare Theranos una
PMI solida.

Capofila della nuova corsa all’oro energetico è Oklo Inc., la startup nucleare sponsorizzata
nientemeno che da Sam Altman (sì, proprio lui, il boss di OpenAI). Oklo ha visto le sue azioni
decollare come un razzo SpaceX in preda a un blackout algoritmico: +700% da inizio anno,
per una market cap di circa 26 miliardi di dollari. Tutto questo — attenzione — senza aver
generato un singolo dollaro di ricavi negli ultimi 12 mesi. E senza nemmeno avere, al momento,
una licenza operativa dalla U.S. Nuclear Regulatory Commission. Ma tranquilli: a Wall Street
basta la parola “nuclear” seguita da “Altman” per perdere qualsiasi residuo di razionalità.
Non è sola. Fermi Inc., altra startup dell’atomo (con un nome che più evocativo non si può), è
sbarcata in borsa ad oltre 19 miliardi di valutazione, malgrado non abbia né centrali, né clienti,
né piani industriali chiari. Solo promesse. A dirigerla c’è Toby Neugebauer, ex CEO di GloriFi,
una banca fallita che si promuoveva come “anti-woke”. Cosa potrebbe mai andare storto? Fermi
promette di costruire 11 gigawatt di capacità elettrica — l’equivalente dell’intero stato del New
Mexico — usando un mix di nucleare, gas naturale, solare e batterie. Peccato che finora abbia
installato attrezzature sufficienti a coprire… il 5% di quell’obiettivo. Un po’ come vendere
biglietti per un concerto dei Beatles del 2040.

E ancora: Nano Nuclear Energy, società da oltre 2 miliardi di dollari di capitalizzazione,
non ha centrali attive ma un sogno: mini-reattori modulari (tipo “nuclear power for dummies”).
NuScale Power, altro nome sulla cresta dell’hype, genera qualche entrata in Romania ma non
è attesa a profitti prima del 2030. In compenso, le sue azioni sono salite del +155% YTD.
Il vero paradosso? In un mercato dove anche i produttori seri come Bloom Energy vengono
scambiati a oltre 130 volte gli utili previsti, gli investitori sembrano ormai preferire
direttamente quelli che gli utili non li vedranno mai. Forse perché l’assenza di fondamentali
rende tutto… più visionario. O più facilmente vendibile a TikTok.
Insomma: se l’IA dovesse anche solo starnutire, la caduta di queste “ghost companies” nucleari
potrebbe fare rumore. Molto rumore. E, come ci ha insegnato il passato, quando si investe su
progetti senza ricavi, senza impianti, senza clienti… spesso si finisce con il rimanere anche
senza soldi.

L’era delle “auto-volanti” è arrivata… ma meglio tenerle in garage (per ora)
Sì, signore e signori, avete vissuto abbastanza a lungo da vedere l’era delle auto volanti. Ma
non aspettatevi ancora inseguimenti alla Blade Runner sulla tangenziale Est. Parliamo della
Pivotal BlackFly, il primo veicolo ultraleggero eVTOL (Electric Vertical Take-Off and
Landing) pensato per l’uso privato — praticamente una libellula hi-tech da 190.000 dollari, che
decolla e atterra senza pista, senza ruote… e senza patente di volo.
La BlackFly ha debuttato nel 2023 e da allora ha conquistato una nicchia di sognatori con
portafogli generosi. È facile da usare (si guida in 2-3 giorni di training), pesa meno di 254
libbre (categoria ultralight FAA), e raggiunge una velocità massima di 55 nodi (circa 100
km/h).

Ha un’autonomia di 20 minuti, che tradotto significa: volo panoramico sopra la campagna,
poi atterraggio d’emergenza dietro un Autogrill se ti prende la voglia di proseguire. Ma la sua
vera forza è la democratizzazione del volo individuale: non serve licenza medica, esame teorico
o addestramento militare. L’età del pilota più anziano certificato? 88 anni. Altro che
monopattino.

Ma attenzione: niente voli sopra i centri abitati, niente notti stellate a 30 metri d’altezza, e
soprattutto niente pioggia, vento forte o… sciarpe troppo svolazzanti. Le normative sono
ancora rigide, e con buona pace di Elon Musk e dei fan del futuro distopico, non vedremo code
aeree in centro città prima di un bel po’.

Nel frattempo, Pivotal ha sospeso la produzione del BlackFly, ma ha già lanciato il preordine
del suo successore, l’Helix, promesso per il 2025 a un prezzo da city car di lusso (190.000 $
appunto). È più elegante, più silenzioso, più stabile… ma resta un gadget per nerd con hangar.
Il volo personale sarà anche diventato tecnicamente possibile, ma è ancora praticamente
impraticabile. Troppi vincoli, poca autonomia, nessuna infrastruttura. E, diciamocelo, la
prospettiva di avere il nostro vicino di casa — quello che non sa parcheggiare — che ci vola
sopra la testa su un drone gigante… non è proprio rassicurante.Eppure, qualcosa si muove. In parallelo, aziende come Joby Aviation e Archer stanno testando
i primi air taxi completamente autonomi per le tratte aeroportuali, Waymo vuole portare i
robotaxi a Londra, e l’AI sta clonando le nostre facce più in fretta di quanto noi riusciamo a
scrollare TikTok. E mentre tutto questo accade, i nuovi data center AI si costruiscono centrali
elettriche private perché “l’infrastruttura americana fa acqua” (cit. ogni CEO tech degli ultimi
sei mesi).

Insomma: il futuro vola, ma ancora non atterra. La tecnologia c’è, i sogni pure, ma come sempre
la realtà è in ritardo di un paio di aggiornamenti firmware.

China alle prese con la “involuzione” — quando la corsa alla supremazia diventa un
tapis-roulant verso il basso

Cina, terra di droni, auto elettriche e piani quinquennali ambiziosi… eppure oggi una sua ombra
economica si chiama un termine che fa prima confusione e poi inquieta: “involution” (in
mandarino 内卷 / neijuan). Significa, in breve, competizione così feroce che distrugge profitti,
logora i lavoratori e spinge i prezzi a scendere—una spirale deflazionistica nel bel mezzo della
seconda economia mondiale.

Facciamo i numeri: nel settembre 2025 i prezzi al consumo (CPI) sono calati dello 0,3% anno
su anno, mentre i prezzi all’ingrosso (PPI) sono diminuiti dell’2,3%, confermando quasi tre
anni di deflazione nel settore industriale cinese.

In altre parole: fabbriche che producono a pieno regime, scorte che si accumulano, vendite che
stentano. E così il mondo “fa il pieno” di merci cinesi a basso costo, mentre all’interno della
Cina ci si lamenta del fatto che «nessuno vince nella guerra dei prezzi».

Perché succede? Immagina una corsa in cui tutti investono, ampliano capacità, assumono,
promettono innovazione… ma la domanda interna ristagna. In settori dove le politiche statali
hanno puntato forte — veicoli elettrici, batterie, pannelli solari — l’offerta ha ormai superato
largamente la richiesta. Questo ha generato tagli dei prezzi, margini in discesa, e un mix di
“produce di più, guadagna meno” che è una ricetta per la stagnazione.
E i lavoratori? Beh, se prima si parlava del famoso regime “996” (9-21, sei giorni a settimana),
ora qualche battuta dice che siamo al “007”: mezzanotte-mezzanotte, sette giorni su sette. Non
proprio il sogno di crescita personale.

La leadership di Pechino ha riconosciuto il problema. Il presidente Xi Jinping ha lanciato un
monito: «serve un’uscita ordinata dalla sovracapacità» e bisogna frenare la competizione
selvaggia che provoca involuzione.

Politiche in arrivo? Tra le misure: divieto di vendite sotto costo, regolamentazione più severa
sulla competizione e interventi per ridurre capacità in eccesso soprattutto nei settori più colpiti.
In sostanza: mentre la Cina insegue la leadership mondiale in IA, robotica e rinnovabili, una
parte della sua economia sembra impantanata in una gara interna che somiglia più a un gioco a
somma negativa. E per gli investitori (e per chi emerge dall’altra parte della catena globale),
questo concetto — “involuzione” — potrebbe essere una delle parole-chiave da tenere d’occhio.

Quando tutto si svaluta, l’oro fa yoga
Sorprendentemente, il metallo giallo non ci appare più solo come un gioiello, ma come un “vero
e proprio bancomat primordiale” — almeno secondo chi, come alcuni veterani dei mercati, lo
considera la forma più antica e stabile di denaro, mentre le banconote moderne sono viste più
come “debito in vesti mondane”. La tesi? Il Gold non produce nulla — esattamente come il
denaro contante — e nel lungo termine ha restituito rendimenti reali piuttosto modesti
(dell’ordine dell’1–2% all’anno secondo alcuni studi). Ma, come sostiene chi lo difende, questo
non è un vizio: è proprio la sua forza. Perché quando le aziende, i governi o gli investitori si
trovano a dover restituire debito o temono che la moneta fiduciaria venga svalutata, ecco che
l’oro “si accende”. In effetti, c’è una correlazione molto elevata tra il debito pubblico
statunitense e il prezzo dell’oro: circa il 92% secondo alcune analisi.

Ora, ok — se stiamo dicendo che l’oro è “solo un diversificatore”, è vero: non paga dividendi,
non produce solo metallo dorato (cfr. investitori in azioni o obbligazioni). Ma è proprio in quei
momenti in cui le bolle scoppiano, i mercati vacillano o la fiducia nel credito si sgretola, che
questo “diversificatore” assume il ruolo di assicurazione aziendale sugli investimenti. Come ha

sottolineato il leggendario Ray Dalio, oggi siete forse meglio a tenere il 10-15% del portafoglio
in oro, dato che il problema vero non è solo “il debito che pagheremo” ma “quanto verrà
svalutata la moneta con cui paghiamo”.
In sintesi: sì, molte aziende tech sprizzano potenzialità da tutti i pori (l’IA, la machine learning,
i reattori modulari…), ma quando guardi i conti e ti rendi conto che tutto quel futuro è già
scontato nei corsi azionari — e nel frattempo il debito pubblico galoppa, le banche centrali
stampano e la fiducia vacilla — ecco che l’oro diventa un’opzione meno “cool” e più “sana”.
Non la superstar del ritorno a breve, ma la guardia di sicurezza dietro la festa.